In un'altra vita
Voi lo sapete perché i bambini
nascono piangendo?
Piangono le lacrime della loro
morte, e più si lasciano alle spalle più urleranno.
Non ci saranno ninna nanne
abbastanza dolci per loro, ma nonostante questo tranquillizzatevi.
Quel che si dice sulla memoria
dei bambini è vero: dai quattro anni la vita precedente si perde, e quel che
prima hanno lamentato e patito svanisce come neve al sole.
A meno che non ci sia stato
qualcosa di più, qualcosa di così forte da non farli morire dentro.
Ma a tutto c’è rimedio, e lo dico
con sarcasmo, mentre ricordo il corpo in coma a seccare dall’interno.
Aveva ricevuto un brutto colpo
tra vertebre e cuore, provocato da un’aria piacevole e calda.
Valeria, il corpo, si era poi
svuotata: il cervello era la terra di nessuno. Un teatro su cui il sipario si
era calato con lentezza e senza applausi.
Lia, l’anima, era volata via.
Morta.
Questa volta era morta, e non
avrebbe potuto renderlo noto a nessuno. Il suo momento lo avevano già giocato,
senza che lei potesse partecipare seriamente.
Intanto, l’uomo nell’altro letto,
lottava contro le sei coltellate ricevute.
Avevano trafitto il giaccone e
l’immagine che s’era fatta Valeria prima di diventare una fioca candela, era
stata piena di piume d’oca bagnate di goccioline rosse.
Il coltello poi, la sesta volta,
non aveva avuto la forza di estrarlo di nuovo, quindi lo aveva lasciato lì;
inserito come quelle penne da firma che mettono a disposizione nelle banche.
Ed era stato in quel momento che
aveva sentito Lia levarsi come un sottile capello fastidioso incastrato in
gola, portandosi via qualcosa e lasciandola in coma.
E dire che l’uomo, Fausto, si era
affacciato alla finestra con lo sguardo stretto per metterla a fuoco, ignaro
del suo futuro e appesantito dal suo passato.
Ironico per Valeria che, corpo
innocente, non ne aveva avuto uno tutto suo.
Il mare si faceva movimentato e
il cielo grigio, le onde mi divertivano perché immaginavo che una grande balena
si divertisse a sua volta a dare qualche codata di troppo.
E su quel pedalò gli schizzi che
arrivavano, subito mi avevano messo paura, ma papà mi aveva messo i braccioli e
questo sembrava bastarmi.
In questo momento, io ero Lisa.
Lisa di sei anni.
Ero fresca di quella vita nuova,
evidentemente quella precedente mi era andata piuttosto bene, anche se a
ricordarmela c’era quella voglia sul ginocchio sinistro: a quanto pare ero
stata una mulatta.
E ora come ora, uso quel piccolo
ricordo di due passati fa, per tranquillizzarmi la notte, prima di andare a
dormire.
Ho quindici anni, vi interessa?
Ho quindici anni perché ho voluto
imparare ciò che nella precedente vita non ho potuto imparare. A pensarci bene,
non devo mai essere stata una figura tranquilla visto i segni che mi porto
dietro, o forse non lo era il posto che mi circondava: per quel che mi riguarda
ricordo due passati di troppo, di cui uno vivido nell’anima, senza che
c’entrino con chi sono ora.
Non siamo in molti da quel che mi
è capitato di scoprire, o forse siamo miliardi ma tutti terribilmente
silenziosi.
Queste cose poi non sono nemmeno
credute vere: la mia verità è ritenuta la teoria di uno quei poveri individui
dalla mente alternativa, che con tutta probabilità è nato nella mia stessa
situazione.
Tutto ciò per dirvi quanto
sconosciuto può essere il nostro mondo. Non sono nemmeno più sicura che i
mostri sotto al letto non esistano o se il sole stia fermo a fissarci o se si
può morire per davvero.
Deve essere estenuante ricordarsi
tutte le proprie vite, angosciante, un po’ come lo è stato perdersi in mare.
Non c’era nessuna balena quel
giorno, solo brutto tempo.
E mio padre, che mi aveva messo i
braccioli, si era messo a pedalare verso riva dove tutti i bagnanti si
ritiravano come piccole formiche.
Mia madre era là a raccattare
ombrellone e teli. Non ebbi il coraggio di salutarla con la mano, perché i
cavalloni che si erano formati mi avevano rimesso paura, e con tutte le mie
forze tenevo stretto il sedile su cui stavo.
Papà pedalava.
Così iniziai a contare le onde
che ci colpivano.
1…2…3…4…5.
5. E ancora 5. Era stato come
ricevere uno schiaffo e poi mi prese.
Vidi quell’onda come una grande
mano, mi afferrò strappandomi via dal sedile e il mio urlo si smorzò nell’acqua
salata.
Tornai a galla con i braccioli
muovendo le gambe a più non posso.
Avevo il collo tirato, il mento
una freccia verso l’alto.
Urlai papà, quando lo vidi cadere
nel mare.
Ma non venne mai da me, gli vidi
la paura negli occhi.
Così tornò a riva e io affogai.
Faccio questo incubo tutte le
notti, senza svegliarmi mai per davvero.
E quando il mio altro padre mi
chiama per svegliarmi -Valeria- dice, io provo solo un grande tormento, perché
Lisa non ha avuto un padre che la salvasse dal suo incubo.
Dopo la mia morte fisica, in
questa vita, non mi sono fatta molti amici.
Vivo di banalità e libri,
accontentando i miei altri genitori, anche se mi vedono molto sola; e nuoto.
Nuoto dall’età di sei anni, e
nonostante questo ho ancora paura d’affogare.
Mi faccio solo la doccia, non uso
la vasca, e al mattino mi lavo la faccia a piccoli sorsi: mai di getto.
Inoltre, strana cosa, cerco sempre di ignorare il mio corpo allo specchio
fissando la superficie di vetro così duramente con lo sguardo, nella vana
speranza di coglierlo di sorpresa, da fargli così mostrare Lisa.
La mia vita passata mi
perseguiterà per sempre se non le metterò mai fine.
Questo pensiero mi sfiorò in una
delle mie notti agitate e così cominciai a cercarlo.
Lisa aveva memorizzato la via di
casa con una filastrocca, che di tanto in tanto riaffiorava procurandomi mal di
testa. Ed è proprio vero che ciò che cerchi sempre di non ricordare riaffiora
solo in quei momenti in cui sei davvero distratto.
Valeria è un corpo
intrappolato da un’anima malsana.
Questo pensiero mi sfiorò giusto
ieri, perché oggi sto cercando di ricordare quella filastrocca.
Si era chiamata Lisa Ghidini,
figlia di Maura D’Alberti e Fausto Ghidini.
Era nata il 5 maggio del 1985,
un’esistenza piuttosto ravvicinata a quella attuale.
Morta annegata, aveva lasciato i
genitori distrutti: la madre non si riprese mai, affondando in un continuo
susseguirsi di malanni.
Il padre era stato portato in
pronto soccorso in preda ad uno stato di shock.
Vivevano ancora a Parma, ma
avevano veduto la vecchia casa per una più piccola, senza stanze in più.
Valeria li aveva trovati un
pomeriggio dopo aver chiesto ai precedenti vicini che a mala pena si ricordava.
Abitavano in un condominio
piccolo, con la porta principale che si apriva su un corto percorso di
mattonelle macchiate di passi e foglie sempre secche, mentre poi il cancelletto
arrugginito che fungeva da primo ostacolo, dava direttamente sulla strada di
Viale San Michele. Proprio di fronte all’università di Lingue.
Era un quartiere sempre all’ombra
e pieno di studenti, quindi non si sarebbero insospettiti della sua continua
presenza.
Arrivava con il numero 11 e sbarcava
a due case di distanza.
Camminava fino al loro cancello e
poi tornava indietro a sedersi alla fermata, aspettando però l’ultimo autobus
dalla parte opposta.
Non li aveva mai visti tornare
casa, era sempre stata distante anche se con lo sguardo colpiva sempre il
cancelletto d’entrata del condominio.
Tornata a casa era solita
raccontarsi una fiaba.
C’era una volta una ragazza
senza futuro. Andata al mercato cercò di scambiare uno dei suoi passati per un
futuro che le apparisse abbastanza decente. Strappatasi la voglia al cappuccino
sul ginocchio, la scambiò per uno color bronzo e se ne tornò a casa felice, ma
il mattino dopo non si risvegliò.
E nella notte urlava in preda al
panico ancora, perché l’anima di Lisa si faceva sempre più irrequieta e pesante.
Piangente la sentiva gorgogliare
acqua salata.
Il numero 11 si ferma e Valeria
scende con tanto di zaino.
Porta un paio di adidas gialle
sotto un completo di jeans e felpa neri. Ha i capelli raccolti e lo sguardo
segnato dalle occhiaie.
Niente trucco.
Non sa bene dove Lisa la stia
portando, non sa bene se Valeria riuscirà a capirlo in tempo.
I lampioni sono illuminati perché
ormai è sera, è ora di cena e i genitori di questa vita l’hanno chiamata al
cellulare senza risposta.
Non c’è risposta.
Cammina come il solito lungo quel
marciapiede, e poi si siede appoggiata al tronco di uno dei tanti alberi.
Non c’è risposta, non c’è futuro.
Per Lisa è così. E va bene.
Per Valeria non c’è molto da dire
o da fare, ha solo fame forse, perché poi è solo corpo.
Si rialza e suona il campanello
dei coniugi Ghidini.
Sente un chi è stupito, non
aspettano nessuno.
Certo men che meno lei.
Ed affacciati alla finestra li
vide con l’espressione dubbiosa e gli occhi tenuti stretti per metterla a fuoco
un poco di più.
Valeria fa qualche passo,
superando il cancelletto cigolante e freddo.
“Piacere io ero vostra figlia e
ho ancora paura del mare…”
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