Non ci sono molte novità, so solo che devo andare a studiare... E va bè! Spero che voi possiate godervi una pausa in mia, ma più sua, compagnia: buona lettura!
NEBBIA.
Non potevo vedere il mio riflesso
nello specchietto retrovisore, ma Erica lo vedeva benissimo.
E io sentivo il suo sguardo
rimbalzare su quello specchietto e colpirmi lievemente, come un bacio, la
guancia destra.
Eravamo usciti per la nebbia,
perché avevo provato a descrivergliela, ma non c’era stato verso di azzeccare
alla perfezione ciò che in realtà poteva solo essere sentito.
Seppur ci fossero le luci accese,
si vedeva poco più in là del muso della macchina. Ora che poi non avevo più
nessuno davanti, mi sentivo spaesato. Una tra le tante sensazione che potei
apprezzare.
Ero, in realtà, molto sollevato
dopo aver visto girare la vettura che prima mi aveva preceduto; due secondi
dopo si era sommato il senso di spavento del condurre una fila di macchine
verso l’ignoto.
Mi sentivo una formica con le
antenne agitate, ogni passo che facevo poteva mostrarmi troppo poco per darmi
sicurezza: avevo la sensazione che prima o poi avrei incontrato un muro, o che
forse avrei continuato ad andare dritto perdendo di vista la strada che in
realtà curvava.
Avevo paragona ad Erica, che
stava sul sedile posteriore, in ogni modo possibile, le macchine che
procedevano sulla corsia a sinistra, in senso opposto a noi.
I loro fanali erano stati angeli
fiochi, un cuore che si spegne o ancora una ciglia-desiderio soffiata via dal
dito: nessuna di queste era stata però la realtà, perché c’erano cose che
andavano viste.
Mi innamorai ancor di più della
nebbia, perché notavo in lei tutto ciò che era opportuno provare: paura, tensione,
meraviglia, stupore, tranquillità (nessuno che superava, nessuno che si
spingeva oltre i limiti, il silenzio, il riformarsi dello spazio tra i polmoni
e il cuore dopo aver visto che non c’era un muro o il vedere in tempo la
curva).
Rallentai nelle vicinanze di un
parcheggio, facendo lampeggiare la freccia troppi metri prima solo perché non
sapevo nemmeno io quando avrei dovuto girare.
Valeria, che era salita con noi,
scese per prima aprendo la porta di Erica.
Le slacciò la cintura e la fece
scendere: per lei abituata a vederci, camminare in quel parcheggio denso
d’oscurità, coi miei fari ancora accesi che la trafiggevano formando onde
simili a quelle d’incenso, era un continuo guardarsi i piedi.
Ma Erica, si limitò ad annusare
l’aria e a portare in avanti le mani per tastarla, e magari afferrarla.
I suoi occhi ciechi mi avrebbero
forse aiutato a capire di cosa sapeva la nebbia.