sabato 9 giugno 2012

[Stralci da una cruna d'ago] Foto

La macchina fotografica è qualcosa che mi ha sempre affascinato, ci sono culture che credono ti rubi l'anima e io personalmente credo, più che di rubare, si tratti un lascito: anche un solo scatto può sondare una parte di noi e del soggetto che rimarrà visibile per l'eternità. È come permetterci di rimanere fermi, ricordarci e capirci.




FOTO.

Siamo principalmente soli, pensavo nel guardare il cielo.
Specialmente la notte, e poi mi ritiravo nel mio letto.
E mi coricavo con le luci spente, rimanendo però ad occhi aperti per un tempo che mi sembrava interminabile.
Provavo paura, in quei momenti; il timore era quello di accendere la luce e trovarmi faccia a faccia con un mostro.
Mi tenevo ben protetta sotto le lenzuola, senza far scivolare fuori neanche un dito. Nella sciocca speranza che quelle coperte mi avrebbero salvata da qualunque tipo d’attacco.
Più di ogni cosa mi spaventavano i coltelli.
Lucevano di un bagliore maligno, tutti quelli che avevo potuto vedere.
E sembravano un po’ come macchine fotografiche: ti portavano via qualcosa.
Nel nostro mondo è così.
Ciò che viene fotografato sbiadisce sempre più, fino a diventare grigio.
E tante tonalità di grigio possono formare qualunque cosa: dai sassi ai fiori, dagli animali alle persone.
E abbiamo una stanza, una stanza in cui arrivano delle cose, sempre grazie a quelle macchine.
Cose di qualunque tipo.
Dalla Terra.
La si vede da lontano e sembra vuota e sola, con la Luna che se ne sta a guardarla ancor più sconsolata.


Aveva appena finito di fare la doccia, quindi rimase lì fuori fermo nel suo accappatoio aspettando che le ultime gocce del rosone finissero di fare ciò che a loro riusciva meglio: gocciolare, sembrando un suono di tamburi da banda colorata che aveva visto attraversare sempre la piazza nelle occasioni più importanti: tu.tu.turururù.tu.
E quando anche l’ultimo tamburo si mise in silenzio, Gabriele si svegliò da quello stato di blocco mentale e fisico portatogli dal caldo dell’acqua.
Ora sentiva il freddo del bagno, anche se il termosifone era acceso, lo specchio e il vetro della finestra erano annebbiati e il suo riflesso era una macchia informe con gli occhi somiglianti a due sogliole, mentre la bocca si chiudeva quasi a formare un becco.
Strinse bene la manica attorno alla mano e lavò via il vapore, finalmente vedendosi.
Si fece un sorriso masticato, per vedere per l’ennesima volta se i denti erano puliti, poi prese l’asciugamano e iniziò a strofinare i capelli: Lucia lo stava aspettando al bar sotto l’ufficio.

Gabriele si chiuse la porta alle spalle contento che almeno fino a pranzo non avrebbe avuto bisogno di entrare in un bagno.
Amava gli appartamenti piccoli solo nel caso in cui gli avesse potuti abitare da solo; era sempre stato in case grandi perché in famiglia erano in cinque: mamma, papà, Lucia, Valeria e lui.
E per tutti gli anni di convivenze lui aveva sempre e solo utilizzato il bagno del piano superiore: adorava quel bagno lontano da sguardi, orecchie e movimenti indiscreti.
Trasferitosi in un monolocale ormai da cinque anni, non si era ancora concesso la convivenza con nessuna donna proprio per queste sue abitudini: le vacanze passate in coppia lo costringevano a fiondarsi molto spesso nel bagno della Hall e le volte in cui era capitato negli ostelli si accontentava dei bagni comuni all’esterno della stanza, aspettando però che tutti se ne fossero andati per concedersi la sua privacy.
Il giorno in cui avrebbe avuto abbastanza soldi da permettersi una casa grande con il bagno perfettamente isolato dalle altre stanze, allora si sarebbe pure concesso la convivenza con Sara.
Chiuse la porta a chiave e si avviò giù per le scale: per quanto amasse gli appartamenti piccoli che gli davano l’idea di un focolare familiare, non riusciva ad accettare lo stretto degli ascensori.
Così, dopo le quattro rampe di scale decise che era tornato il momento di andare a farsi una qualche corsetta nel fine settimana: ormai la sua pancia e le sue gambe ne risentivano di tutto quel divano.
Ma come il solito quello sarebbe stato un debole ammonimento fiacco che lo avrebbe portato al massimo a spostarsi sulla poltrona.
Lavorava in uno studio fotografico, dove le modelle erano le facce sempre serie dei futuri patentati o di coloro che dovevano semplicemente rinnovare un passaporto o una carta d’identità.
Ma di tanto in tanto gli veniva proposto di fotografare eventi matrimoniali o compleanni, il che era come vedere una rappresentazione grafica di un cuore colpito da infarto.
Prese l’autobus in cima alla via e si fermò alla quinta fermata, proprio davanti al bar.
Con una falcata abbastanza lunga attraversò il marciapiede ed entrò dalla porta: un flash lo colpì e simpaticamente strizzo naso occhi e bocca.

- Ok, non venivi così brutto dalla festa dei miei sedici anni. - Lucia appoggiò la macchina fotografica e sorseggiò il suo caffé.

- Lo sai che preferisco stare dall’altra parte dell’obiettivo. - le rispose sorridente, mentre un pezzetto di lui finì in un luogo ben più lontano del polo artico. Ben più lontano dello stesso sole: finì da Ujika.
Ujika si sistemò sul letto con le gambe incrociate e coperte fino al ginocchio con le sottili lenzuola, mentre una formina fantasma di Gabriele si sedette sul pavimento pur non toccandolo.

- Quanti anni hai detto di avere? - quel Gabriele soffriva di amnesia a breve termine, ma non per tutte le cose. E in effetti non c’era poi da stupirsene: Ujika gli aveva fatto una ronda dettagliata aggirandolo e notando che  da dietro somigliava unicamente ad un telo grigio. Un tipo di grigio che ricordava l’effetto neve sugli schermi televisivi: metafora che Ujika non avrebbe mai potuto associare a nulla di esistente, visto che non conosceva il televisore.

- Duecentottantacinque. - gli rispose con lentezza, ma non per prenderlo in giro come invece a quell’ombra sembrò, ma Gabriele non disse nulla al riguardo perché gli costava già abbastanza fatica fare una domanda per volta.

- Ed esattamente quassù come funzionano le conversioni?

Ujika non gli rispose, preferì piuttosto guardarlo con sguardo dubbioso e domandargli:

- Quassù?

- Sì, sul vostro pianeta.

- Come fai a dire che siamo su. Dalla mia finestra pare il contrario.

E Gabriele lanciò uno sguardo alla parete di vetro e vide la Terra come un punto minuscolo verso l’alto dei cieli.

- Bé, avrete pure delle carte astronomiche. - Ujika annuì. - E loro che dicono?

- Perché nel tuo mondo parlano? - l’ombra dell’uomo ridacchiò e fece no con la testa.

- Volevo dire… Qual è il punto di riferimento. Cioè il nord per esempio.

- Il nord? - lo chiese in un sussurro, abbassando lo sguardo verso le mani intrecciate, poi tornò a guardarlo con le ciglia incurvate e le sottili rughe increspate tra loro

- È un punto cardinale, tutti sanno che quello è il nord e si adeguano di conseguenza.

- Quindi è un po’ come far vedere a tutti una cosa allo stesso modo.

- Sì, perché?

- Ma… Come? Basterà che io mi sposti per vederla diversamente.

- Ma il nord rimarrà fermo.

- È triste. - e Ujika si sdraiò coprendosi.

-Perché dici questo...

-Perché vi siete uniti facendo vedere a tutti una cosa allo stesso modo, invece che unirvi permettendo di vedere le cose in maniera diversa. E voi sarete sempre diversi, l’uno dall’altro, come i fiocchi di neve. E invece che attendere di unirvi a formare il manto bianco, avete preferito non cadere.

Lucia spostò la tazza dalla sua postazione occupando così il tavolino accanto.
A casa lo faceva sempre coi piatti, una volta finito di mangiare li spostava dove c’era spazio, solo per poter appoggiare davanti a sé le braccia e magari arrotolare la tovaglia contenente le briciole di pane.

- Mario? Che fai? - abbassò il capo per incrociare lo sguardo del fratello che scosse un poco la testa e sbatté le palpebre come se si fosse svegliato in quel momento.

- Gabriele, mi chiamo Gabriele. - le disse sorridendo e afferrandole una mano che poi lei si portò al volto strofinandosi gli occhi

- Già, vero. È ancora l’alba per me. Un altro caffé?

-Nemmeno per sogno! E nemmeno tu dovresti: un giorno ti ritroveranno residui di caffé in polvere nel sangue e allora sarà troppo tardi.

- Forse hai ragione… In questo caso è meglio che vada. Vi aspettiamo per le otto, d’accordo? - e si alzò, diede due baci a suo fratello e poi si infilò la giacca

- Vi? Non credo che Ujika potrà esserci… - lo sguardo di Gabriele aveva le pupille minuscole che gli davano un’aria vuota e a guardarlo bene le gote si fecero pallide.

- Uji chi? A quanto pare non sono l’unica qui ad aver bisogno di una svegliata.

- Sara, volevo dire Sara… Non so nemmeno cosa sia un’ujika. - e fece spallucce salutando la sorella e pagando il conto.



- Quando hai dato il tuo primo bacio? - Gabriele credeva che la ragazza si fosse addormentata, quindi si era concesso di chiudere gli occhi pur sapendo che non avrebbe dormito.

- Avevo diciassette anni, e i miei denti ad un tratto si scontrarono coi suoi. - gli uscì una risata che se fosse stato vero ed intero sarebbe risultata sonora, invece fu roca e colpita da improvvisi cali di volume. - Un errore di percorso diciamo.

- Avresti potuto darlo anche prima?

- Cosa?

- Il primo bacio.

- Sì, ma questo cosa c’entra? - e da sotto il letto si vide il corpo della ragazza fare spallucce.

Ujika aveva appena compiuto quindici anni terrestri e aveva provato a spiegarlo al suo trovatello, ma non c’era stato molto da fare. Così aveva abbandonato l’idea di farglielo capire e aveva iniziato a pensare al nord e ai fiocchi di neve, fintanto che non le era uscita quella domanda.
La risposta di Gabriele l’aveva soddisfatta a pieno: almeno su quello i loro mondi non erano poi così diversi. Gli errori di percorso erano forse ciò che ci si aspettava di più dal primo bacio.
Sara si era seduta sul letto e aveva piegato la gamba verso di sé per arrivare ad allacciare il decoltè.
Gabriele la attendeva davanti alla finestra del salotto.
Teneva le mani in tasca e lo sguardo fisso, incastrandolo nel vetro. Un forte vuoto allo stomaco gli procurò una smorfia al viso, mentre uno strano colorito grigiastro gli apparve sulla guancia.
L’altro Gabriele si sentì invece avvampare le gote.
Non sapeva perché, non sapeva come, ma era sicuro di star provando una sensazione fisica.
Anche il tatto, seppur solo un formicolio leggero, lo colpì all’improvviso: senza rendersene conto era riuscito a mettere radici in un mondo in cui, col suo lavoro, avrebbe reso tutto grigio.

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