La macchina fotografica è qualcosa che mi ha sempre affascinato, ci sono culture che credono ti rubi l'anima e io personalmente credo, più che di rubare, si tratti un lascito: anche un solo scatto può sondare una parte di noi e del soggetto che rimarrà visibile per l'eternità. È come permetterci di rimanere fermi, ricordarci e capirci.
FOTO.
Siamo principalmente soli, pensavo nel guardare il cielo.
Specialmente la notte, e poi mi ritiravo nel mio letto.
E mi coricavo con le luci spente,
rimanendo però ad occhi aperti per un tempo che mi sembrava interminabile.
Provavo paura, in quei momenti;
il timore era quello di accendere la luce e trovarmi faccia a faccia con un
mostro.
Mi tenevo ben protetta sotto le
lenzuola, senza far scivolare fuori neanche un dito. Nella sciocca speranza che
quelle coperte mi avrebbero salvata da qualunque tipo d’attacco.
Più di ogni cosa mi spaventavano
i coltelli.
Lucevano di un bagliore maligno,
tutti quelli che avevo potuto vedere.
E sembravano un po’ come macchine
fotografiche: ti portavano via qualcosa.
Nel nostro mondo è così.
Ciò che viene fotografato sbiadisce
sempre più, fino a diventare grigio.
E tante tonalità di grigio
possono formare qualunque cosa: dai sassi ai fiori, dagli animali alle persone.
E abbiamo una stanza, una stanza
in cui arrivano delle cose, sempre grazie a quelle macchine.
Cose di qualunque tipo.
Dalla Terra.
La si vede da lontano e sembra
vuota e sola, con la Luna che se ne sta a guardarla ancor più sconsolata.
Aveva appena finito di fare la
doccia, quindi rimase lì fuori fermo nel suo accappatoio aspettando che le
ultime gocce del rosone finissero di fare ciò che a loro riusciva meglio:
gocciolare, sembrando un suono di tamburi da banda colorata che aveva visto
attraversare sempre la piazza nelle occasioni più importanti:
tu.tu.turururù.tu.
E quando anche l’ultimo tamburo
si mise in silenzio, Gabriele si svegliò da quello stato di blocco mentale e
fisico portatogli dal caldo dell’acqua.
Ora sentiva il freddo del bagno,
anche se il termosifone era acceso, lo specchio e il vetro della finestra erano
annebbiati e il suo riflesso era una macchia informe con gli occhi somiglianti
a due sogliole, mentre la bocca si chiudeva quasi a formare un becco.
Strinse bene la manica attorno
alla mano e lavò via il vapore, finalmente vedendosi.
Si fece un sorriso masticato, per
vedere per l’ennesima volta se i denti erano puliti, poi prese l’asciugamano e
iniziò a strofinare i capelli: Lucia lo stava aspettando al bar sotto
l’ufficio.
Gabriele si chiuse la porta alle
spalle contento che almeno fino a pranzo non avrebbe avuto bisogno di entrare
in un bagno.
Amava gli appartamenti piccoli
solo nel caso in cui gli avesse potuti abitare da solo; era sempre stato in
case grandi perché in famiglia erano in cinque: mamma, papà, Lucia, Valeria e
lui.
E per tutti gli anni di
convivenze lui aveva sempre e solo utilizzato il bagno del piano superiore:
adorava quel bagno lontano da sguardi, orecchie e movimenti indiscreti.
Trasferitosi in un monolocale
ormai da cinque anni, non si era ancora concesso la convivenza con nessuna
donna proprio per queste sue abitudini: le vacanze passate in coppia lo
costringevano a fiondarsi molto spesso nel bagno della Hall e le volte in cui
era capitato negli ostelli si accontentava dei bagni comuni all’esterno della
stanza, aspettando però che tutti se ne fossero andati per concedersi la sua
privacy.
Il giorno in cui avrebbe avuto
abbastanza soldi da permettersi una casa grande con il bagno perfettamente
isolato dalle altre stanze, allora si sarebbe pure concesso la convivenza con
Sara.
Chiuse la porta a chiave e si
avviò giù per le scale: per quanto amasse gli appartamenti piccoli che gli
davano l’idea di un focolare familiare, non riusciva ad accettare lo stretto
degli ascensori.
Così, dopo le quattro rampe di
scale decise che era tornato il momento di andare a farsi una qualche corsetta
nel fine settimana: ormai la sua pancia e le sue gambe ne risentivano di tutto
quel divano.
Ma come il solito quello sarebbe
stato un debole ammonimento fiacco che lo avrebbe portato al massimo a
spostarsi sulla poltrona.
Lavorava in uno studio fotografico,
dove le modelle erano le facce sempre serie dei futuri patentati o di coloro
che dovevano semplicemente rinnovare un passaporto o una carta d’identità.
Ma di tanto in tanto gli veniva
proposto di fotografare eventi matrimoniali o compleanni, il che era come
vedere una rappresentazione grafica di un cuore colpito da infarto.
Prese l’autobus in cima alla via
e si fermò alla quinta fermata, proprio davanti al bar.
Con una falcata abbastanza lunga
attraversò il marciapiede ed entrò dalla porta: un flash lo colpì e
simpaticamente strizzo naso occhi e bocca.
- Ok, non venivi così brutto
dalla festa dei miei sedici anni. - Lucia appoggiò la macchina fotografica e
sorseggiò il suo caffé.
- Lo sai che preferisco stare
dall’altra parte dell’obiettivo. - le rispose sorridente, mentre un pezzetto di
lui finì in un luogo ben più lontano del polo artico. Ben più lontano dello
stesso sole: finì da Ujika.
Ujika si sistemò sul letto con le
gambe incrociate e coperte fino al ginocchio con le sottili lenzuola, mentre
una formina fantasma di Gabriele si sedette sul pavimento pur non toccandolo.
- Quanti anni hai detto di avere?
- quel Gabriele soffriva di amnesia a breve termine, ma non per tutte le cose.
E in effetti non c’era poi da stupirsene: Ujika gli aveva fatto una ronda
dettagliata aggirandolo e notando che
da dietro somigliava unicamente ad un telo grigio. Un tipo di grigio che
ricordava l’effetto neve sugli schermi televisivi: metafora che Ujika non
avrebbe mai potuto associare a nulla di esistente, visto che non conosceva il
televisore.
- Duecentottantacinque. - gli
rispose con lentezza, ma non per prenderlo in giro come invece a quell’ombra
sembrò, ma Gabriele non disse nulla al riguardo perché gli costava già
abbastanza fatica fare una domanda per volta.
- Ed esattamente quassù come
funzionano le conversioni?
Ujika non gli rispose, preferì
piuttosto guardarlo con sguardo dubbioso e domandargli:
- Quassù?
- Sì, sul vostro pianeta.
- Come fai a dire che siamo su.
Dalla mia finestra pare il contrario.
E Gabriele lanciò uno sguardo
alla parete di vetro e vide la Terra come un punto minuscolo verso l’alto dei
cieli.
- Bé, avrete pure delle carte
astronomiche. - Ujika annuì. - E loro che dicono?
- Perché nel tuo mondo parlano? -
l’ombra dell’uomo ridacchiò e fece no con la testa.
- Volevo dire… Qual è il punto di
riferimento. Cioè il nord per esempio.
- Il nord? - lo chiese in un
sussurro, abbassando lo sguardo verso le mani intrecciate, poi tornò a
guardarlo con le ciglia incurvate e le sottili rughe increspate tra loro
- È un punto cardinale, tutti
sanno che quello è il nord e si adeguano di conseguenza.
- Quindi è un po’ come far vedere
a tutti una cosa allo stesso modo.
- Sì, perché?
- Ma… Come? Basterà che io mi sposti per vederla diversamente.
- Ma il nord rimarrà fermo.
- È triste. - e Ujika si sdraiò
coprendosi.
-Perché dici questo...
-Perché vi siete uniti facendo
vedere a tutti una cosa allo stesso modo, invece che unirvi permettendo di
vedere le cose in maniera diversa. E voi sarete sempre diversi, l’uno
dall’altro, come i fiocchi di neve. E invece che attendere di unirvi a formare
il manto bianco, avete preferito non cadere.
Lucia spostò la tazza dalla sua
postazione occupando così il tavolino accanto.
A casa lo faceva sempre coi piatti,
una volta finito di mangiare li spostava dove c’era spazio, solo per poter
appoggiare davanti a sé le braccia e magari arrotolare la tovaglia contenente
le briciole di pane.
- Mario? Che fai? - abbassò il
capo per incrociare lo sguardo del fratello che scosse un poco la testa e
sbatté le palpebre come se si fosse svegliato in quel momento.
- Gabriele, mi chiamo Gabriele. -
le disse sorridendo e afferrandole una mano che poi lei si portò al volto
strofinandosi gli occhi
- Già, vero. È ancora l’alba per
me. Un altro caffé?
-Nemmeno per sogno! E nemmeno tu
dovresti: un giorno ti ritroveranno residui di caffé in polvere nel sangue e
allora sarà troppo tardi.
- Forse hai ragione… In questo
caso è meglio che vada. Vi aspettiamo per le otto, d’accordo? - e si alzò,
diede due baci a suo fratello e poi si infilò la giacca
- Vi? Non credo che Ujika potrà
esserci… - lo sguardo di Gabriele aveva le pupille minuscole che gli davano
un’aria vuota e a guardarlo bene le gote si fecero pallide.
- Uji chi? A quanto pare non sono
l’unica qui ad aver bisogno di una svegliata.
- Sara, volevo dire Sara… Non so
nemmeno cosa sia un’ujika. - e fece spallucce salutando la sorella e pagando il
conto.
- Quando hai dato il tuo primo
bacio? - Gabriele credeva che la ragazza si fosse addormentata, quindi si era
concesso di chiudere gli occhi pur sapendo che non avrebbe dormito.
- Avevo diciassette anni, e i
miei denti ad un tratto si scontrarono coi suoi. - gli uscì una risata che se
fosse stato vero ed intero sarebbe risultata sonora, invece fu roca e colpita
da improvvisi cali di volume. - Un errore di percorso diciamo.
- Avresti potuto darlo anche
prima?
- Cosa?
- Il primo bacio.
- Sì, ma questo cosa c’entra? - e
da sotto il letto si vide il corpo della ragazza fare spallucce.
Ujika aveva appena compiuto
quindici anni terrestri e aveva provato a spiegarlo al suo trovatello, ma non
c’era stato molto da fare. Così aveva abbandonato l’idea di farglielo capire e
aveva iniziato a pensare al nord e ai fiocchi di neve, fintanto che non le era
uscita quella domanda.
La risposta di Gabriele l’aveva
soddisfatta a pieno: almeno su quello i loro mondi non erano poi così diversi.
Gli errori di percorso erano forse ciò che ci si aspettava di più dal primo
bacio.
Sara si era seduta sul letto e
aveva piegato la gamba verso di sé per arrivare ad allacciare il decoltè.
Gabriele la attendeva davanti
alla finestra del salotto.
Teneva le mani in tasca e lo
sguardo fisso, incastrandolo nel vetro. Un forte vuoto allo stomaco gli procurò
una smorfia al viso, mentre uno strano colorito grigiastro gli apparve sulla
guancia.
L’altro Gabriele si sentì invece
avvampare le gote.
Non sapeva perché, non sapeva
come, ma era sicuro di star provando una sensazione fisica.
Anche il tatto, seppur solo un
formicolio leggero, lo colpì all’improvviso: senza rendersene conto era
riuscito a mettere radici in un mondo in cui, col suo lavoro, avrebbe reso
tutto grigio.
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