Ed eccomi qui, dodici ore dopo la partenza alla volta di Faenza e di una giornata di famiglia. Si è mangiato, si è chiacchierato e giocato con palloncini grandi grandissimi e pure gialli. E si è pure scoperto che il mondo è veramente piccolo...
Comunque!
Sarà o non sarà l'orario giusto, sarà o non sarà la festa giusta in cui proporlo, ma io vi presento lo stesso questo racconto. Che, lasciatevelo dire, è il collante di questa raccolta. Qui c'è il perché della stranezza, c'è il come dei racconti, c'è il chi della narrazione. Non posso che dirvi buona lettura.
Diciannovetrentaquattro.
Bianco di Seta era un uomo caldo.
Passionale.
E aveva un cane,
no una rana.
Risate, suscitava risate.
Ma a lui piaceva.
Bianco di seta era così (ma sì)
alto così quanto me, poco più di me.
E castano.
Due occhi verdi da infarto.
?
Silenzio.
Perché dopo un infarto c’è
silenzio.
Non che prima ci fosse stato
rumore!
Non che il cuore si fosse rotto…
Aveva fumato almeno una volta, ed
era stato capace di mordere più di una matita al giorno, annusandone il legno.
Non chiamava mai per telefono, a
meno che non fosse pubblico:
gli dava l’idea del saluto,
correre fuori e chiamare.
Di lui ci si ricordava solo di
quei passi che faceva; nulla aveva che lo identificasse in un nome vero.
Doveva essere un angelo, ma il
fumo che mandava giù gli aveva rattrappito le ali. Che simili a foglie secche
si lasciavano ingiallire, fino allo sfinimento.
Per lui alcune composizioni
d’abiti necessitavano del copia e incolla: toglierseli era una noia mentale,
perché già pensava a come avrebbe faticato nel ri-assemblare
quell’accostamento, facendolo risultare bello come gli era riuscito in quella
volta ovviamente fortuita.
- E questo cosa vorrebbe dire?
- Ah… Non lo so.
Spesso le sue frasi avevano la
spinta di finire con quella domanda.
Era semplice porla, quanto invece
era difficile aspettarsi risposta.
Tornò a sedersi, masticando la
fine del biscotto, seppur non gli piacesse masticare cose secche.
- Mmmh… D’accordo, ma quindi che
bisogna aspettarsi? No perché mi sembra di dovermi aspettare qualcosa.
- Non lo so, te l’ho detto. Si
tratta di distinzione credo.
- Distinzione di cosa?
- Ma tra gli Angeli!
- Angeli, sì… E tu saresti in grado
di farlo?
- Ovviamente no! Perché se no
raccontarti questa storia? Credo sia un problema comune a molti di noi, diventa
sempre più difficile arrivare a dare una risposta che arrivi al capo opposto
della cornetta.
- Sei ripetitiva mentre non narri.
- Lo sono anche quando narro, solo
che non ti viene da lamentarti…
- Bhé tu narra, poi si vedrà.
- Eh io narro… Vado allora a
prendere un bicchier d’acqua.
- Acqua?
- Eh, sì. Punti e a capo sono duri
da mandar giù.
- Sì, un punto è sempre un punto.
- Già, e la lingua non è poi così
collaborativa.
…
- Senti, ma perché noi ci
raccontiamo queste cose sempre al telefono? Non sarà mica meglio
trovarci?
- Ma senti quel che dici? Che
senso avrebbe? No no, lascia stare…piuttosto prendi l’acqua, non dovevi
raccontare qualcosa?
Diciannovetrentaquattro.
Cosa poteva essere?
Una data? Un orario?
Cosa esattamente?
Esattamente erano il numero di biscotti
che si sarebbe mangiato.
Oppure il tempo che ci metteva il
vento a coprire la distanza orecchio-bocca passando dalle caviglie facendo un
nodo ad ogni costola.
Era in ordine di millesimi,
sicuramente.
Se così non fosse stato voleva
solo dire che non era il vento.
Quindi niente nodi, le costole
avrebbero ciondolato a modo loro ancora una volta.
Ma se non era poi il vento a
passare per l’orecchio, in entrata, raggiungendo poi la bocca, in uscita
vertiginosa a diciannovetrentaquattro, allora cos’era?
La pulce sì, doveva essere la
pulce.
Quella che salta all’occhio,
oppure un ranocchio.
Decisamente un ranocchio.
Un ranocchietto verde e grinzoso,
perché un ranocchietto senza grinze scivola via e lui non poteva permetterlo.
Così, se fosse stato un ranocchietto
grinzoso e di colore verde, lo avrebbe lasciato respirare con la gola che si
gonfia e si fa trasparente. Lo avrebbe sentito gracidare, lasciandogli il suo
posto per i prossimi diaciannovetrentaquattro.
Perché diciannovetrentaquattro
erano i battiti.
- Ma ne sei sicura? Mi sembrano
tanti… E poi un ranocchietto!
- Non vedo l’ora che tocchi a te,
così sarò io a poterti fare domande.
L’acqua le aveva pulito la gola,
ora poteva continuare per tutto il pomeriggio.
- Sì vabbé, ma questo è il mio
turno… Come hai detto tu è complicato che le cose arrivino di cornetta in
cornetta. Spiega bene. È un mestiere difficile il nostro, non che se ne possa
fare a meno.
- Nessuno deve fare a meno di
qualcosa, ci tocca e continuiamo. Mi basta l’acqua di tanto in tanto e sono a
posto. Tu?
- Io? Non saprei, dovreste notarle
tu certe cose!
- Sì è vero, ma sei così mutevole!
A proposito, qui le informazioni stanno per scarseggiare, t’è arrivato niente?
- Mmmh sì, giusto qualcosa… Ma mi
sa che hai tralasciato troppo perché ho più maiuscole che punti.
- Impossibile. Sarai malata.
- Malata? Io? Questo sì che è
impossibile! Forse è l’Angelo… Sarà mica morto?!
- Ok, non farti prendere dal panico
adesso… Ho ancora parecchie cose da dirti su di lui, i miei polpacci ne sono
pieni. Se fosse morto tutto si confonderebbe, la mia voce si spegnerebbe
portandomi al silenzio.
- Sì d’accordo hai ragione,
procedura standard.
- Esatto. Quindi… Continuo?
Dall’altra parte si sentì
annuire.
Decisamente diciannovetrentaquattro erano i due
battiti distinti ed inglobati l’uno nell’altro di Bianco di Seta e quella sua
rana.
Con la pioggia era sicuramente più facile per lui propinare
l'immagine di una panchina invece che di se stesso, ma qualcosa di lui si
distingueva sempre: era malato di un vuoto pieno di nebbia e non era certo il
fumo ad averglielo combinato.
E, sì. Non è chiaro. Non lo è nessuno.
C’era solo da riempire un vuoto, che noia e tristezza
non facevano che appesantire.
- Ecco, lo sapevo…
- Calmati per favore, non posso
essermi sbagliata.
- Ah sì certo, tu non sbagli mai!
Vuoi davvero che ti rammenti cosa è successo a chi si è sbagliato?
- Sì, e mentre me lo racconti
cerca di non essere ripetitiva.
C'erano e nessuno dice che fossero insieme.
Io per esempio dico senza sapere.
E tutto questo perchè presa da una strana smania di
idolatrare un soggetto dal nome onomatopeico (nella speranza che lo sia solo in
senso metaforico e non effettivo).
Aveva avuto poca voglia di leggersi la pelle quel
giorno, aveva scelto le notizie sbagliate.
Era il giorno in cui si rimpiangeva il centralino,
anche se in fondo non era cambiata poi molto la faccenda!
I telefoni erano una pessima cosa, c’era un vuoto tra
l’uno e l’altro capo e andava riempito, cosa che con le lettere non era mai
stata necessaria.
Non era nemmeno detto che arrivasse tutto per intero
e la cosa metteva a disagio: la notizia si sarebbe sparsa con sempre maggiori
lacune.
- Sei tragica.
- Se la realtà è tragica non posso farci niente.
Questa storia tra l’altro non abbiamo nemmeno bisogno di ritrovarcela sulla
pelle. È dentro capisci? Come quel ranocchio. Te l’avevo detto che c’era
qualcosa di strano.
- Strano non vuol dire sbagliato, ora lasciami
continuare. Questa storia deve fare il giro, e se quell’angelo è morto è meglio
farlo prima che marcisca.
- Oddio… Oddio… Oddio…
- Smettila, mi hai fatto venire un tic all’occhio!
- Chissà magari lo reso capace di scegliere meglio le
storie!
- Ok, la vuoi sapere una cosa? Non ho altre storie.
- Ripeti.
- Non ho altre storie! Questa e solo questa! È l’ultima.
- Credi sia
l’ultima.
- No no, è proprio l’ultima e per me basta. Finito,
stop, ciao. L’ultima chiamata.
- Impossibile, ti sbagli. Non ci sono ultime storie.
- Sì che ci sono, ci sono eccome. Questo Angelo è la
mia ultima storia e credo sia proprio bella.
- Perché? Che dici? Io… Noi non abbiamo ultime storie.
- Sì, invece. Ed è bellissimo. Ho finito di narrare,
per una volta sarò io ad essere narrata.
- Sai già come?
- No… Non sapevo neanche cosa aspettarmi da questa
storia.
- Ora lo sai?
- No! La racconto per finire le parole, poi il
silenzio. E se tornerò a parlare, vabbé. Allora mi sarò sbagliata, ma se invece
non è così…
- Basta, mi spaventi. Inizia a tacere da ora.
- Non posso, lo sai. Devo narrare, e tu non puoi e non
vuoi chiudere la chiamata: questo sì sarebbe un errore.
Il ranocchio si gonfiava di
quella nebbia, ogni diciannove c’era un suo trentaquattro isterico. Si
confondevano in un piano di luce che non scaturiva più dalle ali.
A proposito, loro avevano
iniziato a puzzare.
Un puzzo lontano da inferno e
paradiso.
Lui non avrebbe smesso di
battere.
- Sono finite le parole mia cara,
ma prima del silenzio mi rimane ancora qualche minuto.
- Credi che arriverà?
- Il silenzio? Certo.
- No… Io intendevo il nome.
- Cavoli è vero, non ci avevo
pensato. In questi casi arriva sempre un nome, un’identità.
- Chi sarai?
- Non lo so. Sicuramente chi era lui, però.
- È vero.
- Conosci la storia di qualcuno
come sarò io?
- Mmmh… A pezzi. E non è una storia
felice.
- E perché?
- Il nome non lo ha accettato,
forse era la storia sbagliata.
- Non ci sono storie sbagliate.
Quando quella ti trova è sempre quella giusta.
- Eccola, è impazzita…
- No, è vero! Sei tu, con
un’identità. Un’identità non è sbagliata.
- Alcune sì, per forza!
- Come? Spiegami come. E se non ci
riesci è perché non ne hai una.
- Sì è vero, non ci riesco e non
ne ho una, ma la mia voglio che sia come un triangolo.
- E perché? - risatina tendente
all’isterico.
- Perché i triangoli pungono e
sono piatti e lisci. Sono perfetti.
- Tutti?
- No, tutti no.
- Ma quello per te lo sarà, e
quando narrerai di me fallo con calma. Voglio vivermi il più a lungo
possibile.
- Ma tu stai pia…
- Ehi? Che è successo? Pronto?
Pro…
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