sabato 2 giugno 2012

[Stralci da una cruna d'ago] Diciannovetrentaquattro

Ed eccomi qui, dodici ore dopo la partenza alla volta di Faenza e di una giornata di famiglia. Si è mangiato, si è chiacchierato e giocato con palloncini grandi grandissimi e pure gialli. E si è pure scoperto che il mondo è veramente piccolo... 
Comunque! 
Sarà o non sarà l'orario giusto, sarà o non sarà la festa giusta in cui proporlo, ma io vi presento lo stesso questo racconto. Che, lasciatevelo dire, è il collante di questa raccolta. Qui c'è il perché della stranezza, c'è il come dei racconti, c'è il chi della narrazione. Non posso che dirvi buona lettura.


Diciannovetrentaquattro.


Bianco di Seta era un uomo caldo.
Passionale.
E aveva un cane,
no una rana.

Risate, suscitava risate.
Ma a lui piaceva.
Bianco di seta era così (ma sì) alto così quanto me, poco più di me.
E castano.
Due occhi verdi da infarto.
?
Silenzio.
Perché dopo un infarto c’è silenzio.
Non che prima ci fosse stato rumore!
Non che il cuore si fosse rotto…
Aveva fumato almeno una volta, ed era stato capace di mordere più di una matita al giorno, annusandone il legno.
Non chiamava mai per telefono, a meno che non fosse pubblico:
gli dava l’idea del saluto, correre fuori e chiamare.
Di lui ci si ricordava solo di quei passi che faceva; nulla aveva che lo identificasse in un nome vero.
Doveva essere un angelo, ma il fumo che mandava giù gli aveva rattrappito le ali. Che simili a foglie secche si lasciavano ingiallire, fino allo sfinimento.
Per lui alcune composizioni d’abiti necessitavano del copia e incolla: toglierseli era una noia mentale, perché già pensava a come avrebbe faticato nel ri-assemblare quell’accostamento, facendolo risultare bello come gli era riuscito in quella volta ovviamente fortuita.

- E questo cosa vorrebbe dire?

- Ah… Non lo so.

Spesso le sue frasi avevano la spinta di finire con quella domanda.
Era semplice porla, quanto invece era difficile aspettarsi risposta.
Tornò a sedersi, masticando la fine del biscotto, seppur non gli piacesse masticare cose secche.

- Mmmh… D’accordo, ma quindi che bisogna aspettarsi? No perché mi sembra di dovermi aspettare qualcosa.

- Non lo so, te l’ho detto. Si tratta di distinzione credo.

- Distinzione di cosa?

- Ma tra gli Angeli!

- Angeli, sì… E tu saresti in grado di farlo?

- Ovviamente no! Perché se no raccontarti questa storia? Credo sia un problema comune a molti di noi, diventa sempre più difficile arrivare a dare una risposta che arrivi al capo opposto della cornetta.

- Sei ripetitiva mentre non narri.

- Lo sono anche quando narro, solo che non ti viene da lamentarti…

- Bhé tu narra, poi si vedrà.

- Eh io narro… Vado allora a prendere un bicchier d’acqua.

- Acqua?

- Eh, sì. Punti e a capo sono duri da mandar giù.

- Sì, un punto è sempre un punto.

- Già, e la lingua non è poi così collaborativa.


- Senti, ma perché noi ci raccontiamo queste cose sempre al telefono? Non sarà mica meglio
trovarci?

- Ma senti quel che dici? Che senso avrebbe? No no, lascia stare…piuttosto prendi l’acqua, non dovevi raccontare qualcosa?


Diciannovetrentaquattro.
Cosa poteva essere?
Una data? Un orario?
Cosa esattamente?
Esattamente erano il numero di biscotti che si sarebbe mangiato.
Oppure il tempo che ci metteva il vento a coprire la distanza orecchio-bocca passando dalle caviglie facendo un nodo ad ogni costola.
Era in ordine di millesimi, sicuramente.
Se così non fosse stato voleva solo dire che non era il vento.
Quindi niente nodi, le costole avrebbero ciondolato a modo loro ancora una volta.
Ma se non era poi il vento a passare per l’orecchio, in entrata, raggiungendo poi la bocca, in uscita vertiginosa a diciannovetrentaquattro, allora cos’era?
La pulce sì, doveva essere la pulce.
Quella che salta all’occhio, oppure un ranocchio.
Decisamente un ranocchio.
Un ranocchietto verde e grinzoso, perché un ranocchietto senza grinze scivola via e lui non poteva permetterlo.
Così, se fosse stato un ranocchietto grinzoso e di colore verde, lo avrebbe lasciato respirare con la gola che si gonfia e si fa trasparente. Lo avrebbe sentito gracidare, lasciandogli il suo posto per i prossimi diaciannovetrentaquattro.
Perché diciannovetrentaquattro erano i battiti.


- Ma ne sei sicura? Mi sembrano tanti… E poi un ranocchietto!

- Non vedo l’ora che tocchi a te, così sarò io a poterti fare domande.

L’acqua le aveva pulito la gola, ora poteva continuare per tutto il pomeriggio.

- Sì vabbé, ma questo è il mio turno… Come hai detto tu è complicato che le cose arrivino di cornetta in cornetta. Spiega bene. È un mestiere difficile il nostro, non che se ne possa fare a meno.

- Nessuno deve fare a meno di qualcosa, ci tocca e continuiamo. Mi basta l’acqua di tanto in tanto e sono a posto. Tu?

- Io? Non saprei, dovreste notarle tu certe cose!

- Sì è vero, ma sei così mutevole! A proposito, qui le informazioni stanno per scarseggiare, t’è arrivato niente?

- Mmmh sì, giusto qualcosa… Ma mi sa che hai tralasciato troppo perché ho più maiuscole che punti.

- Impossibile. Sarai malata.

- Malata? Io? Questo sì che è impossibile! Forse è l’Angelo… Sarà mica morto?!

- Ok, non farti prendere dal panico adesso… Ho ancora parecchie cose da dirti su di lui, i miei polpacci ne sono pieni. Se fosse morto tutto si confonderebbe, la mia voce si spegnerebbe portandomi al silenzio.

- Sì d’accordo hai ragione, procedura standard.

- Esatto. Quindi… Continuo?

Dall’altra parte si sentì annuire.


Decisamente diciannovetrentaquattro erano i due battiti distinti ed inglobati l’uno nell’altro di Bianco di Seta e quella sua rana.
Con la pioggia era sicuramente più facile per lui propinare l'immagine di una panchina invece che di se stesso, ma qualcosa di lui si distingueva sempre: era malato di un vuoto pieno di nebbia e non era certo il fumo ad averglielo combinato.
E, sì. Non è chiaro. Non lo è nessuno.
C’era solo da riempire un vuoto, che noia e tristezza non facevano che appesantire.


- Ecco, lo sapevo…

- Calmati per favore, non posso essermi sbagliata.

- Ah sì certo, tu non sbagli mai! Vuoi davvero che ti rammenti cosa è successo a chi si è sbagliato?

- Sì, e mentre me lo racconti cerca di non essere ripetitiva.


C'erano e nessuno dice che fossero insieme.
Io per esempio dico senza sapere.
E tutto questo perchè presa da una strana smania di idolatrare un soggetto dal nome onomatopeico (nella speranza che lo sia solo in senso metaforico e non effettivo).
Aveva avuto poca voglia di leggersi la pelle quel giorno, aveva scelto le notizie sbagliate.
Era il giorno in cui si rimpiangeva il centralino, anche se in fondo non era cambiata poi molto la faccenda!
I telefoni erano una pessima cosa, c’era un vuoto tra l’uno e l’altro capo e andava riempito, cosa che con le lettere non era mai stata necessaria.
Non era nemmeno detto che arrivasse tutto per intero e la cosa metteva a disagio: la notizia si sarebbe sparsa con sempre maggiori lacune.


- Sei tragica.

- Se la realtà è tragica non posso farci niente. Questa storia tra l’altro non abbiamo nemmeno bisogno di ritrovarcela sulla pelle. È dentro capisci? Come quel ranocchio. Te l’avevo detto che c’era qualcosa di strano.

- Strano non vuol dire sbagliato, ora lasciami continuare. Questa storia deve fare il giro, e se quell’angelo è morto è meglio farlo prima che marcisca.

- Oddio… Oddio… Oddio…

- Smettila, mi hai fatto venire un tic all’occhio!

- Chissà magari lo reso capace di scegliere meglio le storie!

- Ok, la vuoi sapere una cosa? Non ho altre storie.

- Ripeti.

- Non ho altre storie! Questa e solo questa! È l’ultima.

Credi sia l’ultima.

- No no, è proprio l’ultima e per me basta. Finito, stop, ciao. L’ultima chiamata.

- Impossibile, ti sbagli. Non ci sono ultime storie.

- Sì che ci sono, ci sono eccome. Questo Angelo è la mia ultima storia e credo sia proprio bella.

- Perché? Che dici? Io… Noi non abbiamo ultime storie.

- Sì, invece. Ed è bellissimo. Ho finito di narrare, per una volta sarò io ad essere narrata.

- Sai già come?

- No… Non sapevo neanche cosa aspettarmi da questa storia.

- Ora lo sai?

- No! La racconto per finire le parole, poi il silenzio. E se tornerò a parlare, vabbé. Allora mi sarò sbagliata, ma se invece non è così…

- Basta, mi spaventi. Inizia a tacere da ora.

- Non posso, lo sai. Devo narrare, e tu non puoi e non vuoi chiudere la chiamata: questo sì sarebbe un errore.

Il ranocchio si gonfiava di quella nebbia, ogni diciannove c’era un suo trentaquattro isterico. Si confondevano in un piano di luce che non scaturiva più dalle ali.
A proposito, loro avevano iniziato a puzzare.
Un puzzo lontano da inferno e paradiso.
Lui non avrebbe smesso di battere.


- Sono finite le parole mia cara, ma prima del silenzio mi rimane ancora qualche minuto.

- Credi che arriverà?

- Il silenzio? Certo.

- No… Io intendevo il nome.

- Cavoli è vero, non ci avevo pensato. In questi casi arriva sempre un nome, un’identità.

- Chi sarai?

- Non lo so. Sicuramente chi era lui, però.

- È vero.

- Conosci la storia di qualcuno come sarò io?

- Mmmh… A pezzi. E non è una storia felice.

- E perché?

- Il nome non lo ha accettato, forse era la storia sbagliata.

- Non ci sono storie sbagliate. Quando quella ti trova è sempre quella giusta.

- Eccola, è impazzita…

- No, è vero! Sei tu, con un’identità. Un’identità non è sbagliata.

- Alcune sì, per forza!

- Come? Spiegami come. E se non ci riesci è perché non ne hai una.

- Sì è vero, non ci riesco e non ne ho una, ma la mia voglio che sia come un triangolo.

- E perché? - risatina tendente all’isterico.

- Perché i triangoli pungono e sono piatti e lisci. Sono perfetti.

- Tutti?

- No, tutti no.

- Ma quello per te lo sarà, e quando narrerai di me fallo con calma. Voglio vivermi il più a lungo possibile.

- Mi farai piangere…

- Ma tu stai pia…

- Ehi? Che è successo? Pronto? Pro…

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