sabato 14 luglio 2012

[Stralci da una cruna d'ago] Mangiami il cuore

È sabato sera, gli zii sono venuti a cena e riesco a stare sveglia solo perché tengo la luce accesa. Mi fanno questo effetto le cene di famiglia, mi spolpano: forse perché mia madre ha il solito vizio viziante di imbottirci con i suoi manicaretti. 
Non lo so, ma sta di fatto che io non andrò a letto leggera.
E a proposito vi propongo un raccontino dal titolo un po' cannibale come digestivo.

Mangiami il cuore

Erica era pallida e troppo magra, il tutto sottolineato da quei capelli neri che cadevano come grappoli d’uva.
A sentire tutti era impazzita senza un vero motivo, la sua era sempre stata una famiglia piuttosto normale…
Ma in tutto questo ragionamento non era minimamente stata valutata Miss Isabelle, una piccola bambina dai capelli biondi che vestiva alla Cappuccetto Rosso.
Era nata in un pomeriggio qualunque, mentre Erica attendeva con ansia l’arrivo di qualche amica.
Per non annoiarsi, ed essere sicura che quando le sue ospiti sarebbero arrivate lei sarebbe stata in grado di giocare alla perfezione, creò Isabelle.
Un immaginario come tanti, in fondo Erica aveva solo sei anni: come avrebbe potuto nuocerle?
Isabelle poi sembrava divertirsi veramente un mondo a tenere il CiccioBello tra le braccia mentre Erica doveva assolutamente correre in bagno, le piaceva anche prendere il tè dalla Signora Foca (che a sentire gli altri pupazzi era una pettegola esagerata) o andare a giocare alla gelataia: Erica faceva un gelato verde davvero buonissimo.
Le cose tra di loro sembravano quindi andare davvero a gonfie vele, specialmente quando venne annunciato che era arrivato il momento del nascondino: Erica aveva preso le Barbie, di cui Isabelle avrebbe dovuto fare la voce perché Erica era già impegnata a fare quella di tanti altri giocatori, qualche peluche e li aveva sparsi nei nascondigli migliori e poi ordinò a Isabelle di fare altrettanto.
L’immaginaria si guardò attorno: sotto il letto nessuno voleva farle spazio, dietro la casa delle bambole era impossibile…restava solo l’armadio.
Un bellissimo armadio bianco.
Ci si nascose dentro, si sedette comodamente chiudendo la porta e immaginò di essere alla guida della macchina su cui avevano fatto finta di salire prima per andare a mangiare il gelato.
Si mise una mano sulla bocca per coprire le risate, era assolutamente certa che avrebbe vinto, mentre Erica era finalmente arrivata a dieci.
Orsacchiotto e Margherita erano già stati trovati e per un attimo Isabelle temette di aver perso anche lei, ma una serie di voci nuove si fecero largo nella stanza accompagnate da tanti passi veloci.
Ridevano e scherzavano e Isabelle si spostò piano piano per sentire meglio: iniziò a ridacchiare anche lei sperando che Erica si accorgesse quanto avrebbe voluto divertirsi anche lei, ma lei era troppo occupata per rendersene conto.
Isabelle tirò un calcio potentissimo per uscire dall’armadio, ma il suo piede attraversò bellamente la porta sbalordendola.
Lo rimise dentro e iniziò a piangere copiosamente.
Tra le lacrime si guardò le gambe e le mani tutte puntate da spuntoni di luce intensa, in cuor suo lo sapeva: stava scomparendo.
Iniziò a scalpitare furiosamente fregandosene del casino che stava provocando, ma dall’altra parte continuavano a ridere e scherzare. Urlò graffiandosi le corde vocali e improvvisamente smise di bruciare: era tornato buio dentro all’armadio.
Riprese fiato pettinandosi delicatamente i capelli e poi uscì, notando che anche nella cameretta si era fatto buio: era notte e la bambina dai capelli corvini dormiva beata. Troppo per i suoi gusti.
La guardò sprezzante avventandosi sui giocattoli: staccò la testa a tutte le Barbie coi capelli scuri e squarciò il sederone della Signora Foca per passare agli occhi di tutti gli orsacchiotti. 


Erica era diventata una ragazza introversa e incapace di socializzare, ormai i genitori aveva lasciato perdere e qualunque cosa facesse la loro unica figlia ormai era talmente tanto fuori controllo da non toccarli più minimamente.
Pazza, era talmente tanto fuori di testa da negare il misfatto nonostante le innumerevoli prove.
Per evitare che nuocesse alla salute di altri bambini, all’età di undici anni venne prelevata da scuola e obbligata allo studio in casa con un tipo che nemmeno le piaceva.
Isabelle se ne stava ormai da anni in quella casa pronta a torturare la fragilità di quella bambina ogni volta che ne fosse valsa la pena: ciò indicava ogni qual volta Erica potesse accorgersi che era stata lei a rompere, dilaniare, frammentare qualcosa…

- Ma non sono stata io! È stata lei! - diceva tristemente indicandola, Isabelle poi le sputava tra i piedi perché nemmeno si ricordava il suo nome.

- Lei chi tesoro? - chiedeva esausta la madre dopo una lunga giornata di lavoro con quell’aria terribilmente abbattuta.
Anche quando Erica si richiudeva in camera per tutto il giorno per evitare di vedere Isabelle anche solo per qualche istante, quest’ultima spuntava maligna attraversando le pareti come un fantasma.
Le scorrazzava attorno intonando strane filastrocche acutissime, strappando qualche libro, minacciandola con un paio di forbici e lanciando per aria tutto ciò che avrebbe potuto rompersi cadendo.

- Hai i capelli troppo lunghi. - disse Isabelle guardandola muovendo le forbicine

- Lasciami in pace!

Isabelle strappò le coperte dal letto sotto cui si era nascosta Erica, le afferrò un braccio che aveva accerchiato la testa. Nella foga di volerle tagliare i capelli non si accorse che qualche volta colpiva per sbaglio i polsi o le guance.

- Basta, lasciami stare! - singhiozzava.

- Come mi chiamo? Dimmelo! - ed Erica si zittiva spaventata, mentre vedeva i chicchi cadere l’uno dopo l’altro bagnati da qualche goccia rossa di troppo.


I tagli le bruciavano intensamente, ma sentiva che ancora non era abbastanza: dentro aveva un groviglio di dolore che avrebbe tanto voluto slegare, ma Isabelle era sempre lì.
Le cantava giorno e notte quelle stressanti nenie macabre e ridacchiava nel vederla tagliarsi:

- Sei ridicola. - le diceva meschina, ma Erica preferiva essere lei stessa la fonte del suo dolore.

- Ti immagini che faccia farebbero i tuoi se lo sapessero?

- Non ti sentono e ti vedo solo io… Quindi non puoi farci niente.

- Hai ragione, ma per rimediare a questa sconfitta inflittami posso torturati ancora un po'.

- Stammi lontano! - Erica puntò febbrile la lametta contro Isabelle che scoppiò a ridere, si lasciò cadere a terra come affetta da convulsioni di piacere.

- Ridicola, sei ridicola! - canticchiò.

Erica si lasciò sfuggire un singhiozzo e tornò a tagliarsi l’interno coscia.
Bruciava terribilmente.

- Hai dimenticato un punto, aspetta che ti do una mano.

Isabelle saltò sul letto afferrando la mano sinistra di Erica che stava trattenendo l’arma e con tutte le sue forze arrivò ad inciderle il polpaccio.

- Smettila mi fai male!

- Sei ridicola… - le tirò uno schiaffo potente sui tagli rossi sentendola urlare copiosamente.

- Basta… - disse, soffocando il pianto nel cuscino, il lenzuolo inzuppato.

- Basta lo dico io, dimmi come mi chiamo o ti strappo via l’orecchio.

- Lasciami stare… - singhiozzò lanciando il cuscino contro Isabelle.

- Dimmi come mi chiamo, stupida! - il piccolo piede dell’immaginaria colpì il mento di Erica.

- Non lo so!

- L’hai voluto tu. - Isabelle era pronta ad avventarsi su di lei come forse non aveva mai fatto.


Si dice che esista una Fortezza, a capo di questa maestosità c’è Lui, un individuo piuttosto strano ed elegante sempre pronto ad accogliere i nuovi arrivati e i ben tornati: ad accomunarli c’è sempre quella sensazione di scarsa felicità di ritrovarsi tra quelle spesse mura bianche.
Isabelle ed Erica erano arrivate insieme ed avevano rotolato per il corridoio fino ai piedi di Lui, il quale non sembrò troppo scioccato di vederle ridotte in quello stato: l’una esausta e l’altra troppo attiva.
Lasciò che si rialzassero da sole per poi stringere loro la mano:

- Benvenute, abbiamo già fatto preparare le vostre stanze. Ecco. - disse, passando a ciascuna una chiave dorata

- Miss Isabelle, prosegua verso destra per favore. - Lui ed Erica rimasero a guardare la bambina intimorita per la prima volta, la videro sparire dentro un lungo corridoio bianco senza sentire nemmeno l’eco dei suoi passi

- Da un lato vederla andare via dovrebbe farla stare meglio, dall’altro dovrebbe preoccuparla…

- Non capisco...

Lui si incamminò invitandola a seguirlo.
I due presero il corridoio di sinistra, anch’esso bianco e fastidiosamente silenzioso.
Al termine, un’entrata di piume colorate, si muoveva leggermente; scostandosi poi con il soffio di Lui mostrò tristemente il proseguire corridoio, pieno di tante altre porte.
L’uomo iniziò a contare fermandosi davanti ad un’entrata che non aveva nulla di diverso dalle altre:

- Siete arrivata, e mi scusi se non le auguro una buona permanenza, ma sarebbe crudele da parte mia.

Erica infilò la chiave facendola scricchiolare nella serratura, la porta si aprì e i suoi occhi videro solo un piccolo letto blu.
Si avvicinò incerta.

- Si sdrai per favore, pancia sotto. - Erica obbedì, ritrovandosi con il volto incastrato in un incavo.

Lui le prese le braccia, le stese portando i palmi delle mani verso l’alto.
Prese le caviglie separandole.
Prese ago e filo e iniziò a cucire sottili trattini neri sui polsi e sulle cosce e sulla schiena.

- Mi spiace signorina. - disse semplicemente uscendo.

Se solo potessi sentirlo, se solo potessi vedere il sangue che si rattrappisce sulla mia pelle e le sue gocce sgusciare via come girini.
Tagliami, tagliami lungo i trattini, liberami dal male pungente.
Acido.
Le parole di Isabelle risuonano in questa stanza dilaniandomi il cuore che non può sfogarsi, intrappolato nel mio corpo.
Mangiami il cuore, avanti, ti supplico.
Mangiami il cuore.

Quei trattini, come fosse un sacchetto della Mulino Bianco, che ti dicono “taglia qui”: se mai qualcuno avesse avuto il coraggio di farlo avrebbe potuto vedere tutti i pesi dell’essere umano.

Era impazzito, una fedina penale la sua che non rientrava certo tra le più pulite, e ora aveva raggiunto lo strato ravvicinato di pelle: il confine, la membrana che conteneva tutto.
Tagliatemi, qui lungo i trattini, e lasciate che mi liberi da questo peso: c’è tanta roba qua dentro.
Ossa, sangue, organi e tessuti e poi pensieri, idee, cultura.
Vorrei vederla uscire e scappare via.
Mangiami il cuore coraggio, il peso più grande che potrebbe volarsene via squarciando la pelle, lasciandomi sanguinare tristemente.
Zac Zac, tagliami lungo i trattini, tesoro.


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